LE "RADIOSE GIORNATE" DELLA
PRIMAVERA DEL '45
L'ITALIA IN PASTO A BARBARI ASSASSINI
Estratto da "Caino e Caino" Guasti Gian Maria Stamperia
artistica nazionale 1997
Molto meglio la morte tanto desiderata dall’inizio dell’iniquo castigo
a cui ero sottoposto. Per nostra fortuna la giornata era alla fine ed il
buio incombeva anticipato dalla giornata piovosa e dal cielo di piombo
e con il buio diminuirono anche le violenze e le angherie probabilmente
perché, data l’ora, il gruppo di carcerieri si era ridotto notevolmente.
Eravamo nelle mani di una Brigata Partigiana che, mi era sembrato di capire,
si chiamava Stella Rossa. Alcuni degli uomini che ne facevano parte indossava
capi militari, giacche grigioverdi camicie e pantaloni alla zuava, ma non
erano ex militari. Niente nel loro comportamento denotava un passato inquadramento
nell’esercito. Fra loro non notai nessuno che avesse particolare autorità
sugli altri, anzi, erano frequenti le intolleranze ed i reciproci insulti
e liti. Eravamo rinchiusi in un locale che probabilmente era abitualmente
adibito a magazzino. Un forte odore faceva supporre la vicinanza di una
stalla ed un fienile. Il pavimento era di spesse assi di legno per fortuna
asciutto così da attenuare il freddo ed i brividi che provocava
l’umidità dei nostri abiti zuppi di pioggia.
Dal mattino eravamo digiuni; nessuno si era curato di provvedere, in
merito, ma al confronto delle violenze subite, la pancia vuota era il male
minore. Stavamo al buio perché il locale era privo di illuminazione
solo di tanto in tanto venivamo inquadrati nel fascio di luce di una torcia
elettrica che l’addetto alla nostra sorveglianza puntava su di noi attraverso
una finestra priva di vetri ma dotata di una robusta inferriata. Il buio
inoltre ci impediva reciproche conoscenze o scambi di parole. Solo lamenti
ed imprecazioni ed una cieca ricerca di una posizione sul pavimento per
riuscite a riposare. Non ci era nemmeno possibile sapere quanti fossimo.
Finiva una giornata, sinceramente la peggiore di tutta la nostra vita passata.
Il giorno precedente nessuno di noi avrebbe potuto immaginare la tragicità
degli avvenimenti che si erano accavallati in tale quantità ed in
così breve spazio di tempo. Era il 27 aprile dell’anno 1945. Al
mattino eravamo uomini, soldati, forti sani e dotati di personalità
e dignità. Alla sera ci ritrovavamo ridotti al livello di animali
torturati, umiliati, privati di ogni diritto in balia di individui barbari
e violenti. Alle prime luci dell’alba del 28 aprile il mucchio informe
sul pavimento cominciò ad agitarsi. Finalmente potevamo guardarci
in faccia e sgranchirci gli arti senza scalciare qualcuno come era successo
nelle ore notturne. Qualcuno non aveva dormito per niente ma la maggior
parte qualche sonnellino era riuscito a farlo. Io avevo alternato il profondo
stato di agitazione in cui mi trovavo a brevi periodi di sonno continuamente
interrotto dai movimenti dei vicini o dagli interventi di controllo dei
nostri carcerieri. Il pensiero correva alle cose che in quei particolari
momenti avevano acquisito enorme importanza. La famiglia, la mamma, le
sorelle, i tempi della scuola ed i volti delle persone che avevano significato
qualcosa nella nostra vita. Purtroppo difficilmente riuscivo a completare
con l’immaginazione il corso dei ricordi. Qualcosa sempre sopraggiungeva
ad interromperli. Mentre, nel primo chiarore del mattino, mi rendevo conto
dell’ambiente e delle persone che mi circondavano fui interpellato da un
capitanò della X MAS che mi chiese quanti anni avessi e da dove
provenissi. Era anche lui lombardo di Pavia e dimostrava circa 40/45 anni.
Mi rivolse alcune frasi buone e paternalistiche soffermandosi a notare,
con rammarico e dispiacere; la mia giovane età alla luce della tragica
situazione. Fu allora che mi resi contò come tutti gli individui
intorno a me fossero più avanti negli anni. Ero l’unico giovanissimo
in quel frangente. Tutti, nelle ore successive, mi trattarono con affettuosità
e ciò mi fu di grande consolazione e stimolo. Con il sopravvento
della luce del giorno iniziò un fitto scambio di parole ed opinioni.
Era comunque convinzione generale che per noi non esistesse futuro. La
sete era generale perché anche l’acqua mancava. Un sergente della
Divisione Littorio, che aveva subito particolari violenze a causa della
sua divisa, con il volto tumefatto, un occhio completamente nero gonfio
e chiuso e l’altro appena in fessura, al primo apparire di due partigiani
venuti a controllare chiese dell’acqua ed in cambio ottenne un calcio nella
pancia ed una serie di insulti. L’ultima acqua che avevamo bevuto era quella
della pioggia che ci era arrivata in bocca il giorno prima e le numerose
ferite ed ecchimosi di cui eravamo tutti coperti accentuavano la sete.
Il capitano di Pavia, che si chiamava Rossetti, prese l’iniziativa di organizzare
e mettere un po’ d’ordine. Era l’unico ufficiale di grado superiore presente
fra noi oltre un sottotenente. Particolare strano che i partigiani entrati
nel campo di Ferrada non ne avessero scelti di più ma la spiegazione
venne proprio per bocca del capitano. Non ne avevano trovati altri perché
gli americani avevano dirottato tutti gli ufficiali in un gruppo a parte
mentre il capitano Rossetti ed il sottotenente Viale, per loro scelta e
disgrazia, rimasero con i loro soldati. Dal breve censimento effettuato
risultò che solo una decina di noi, me compreso, erano sottufficiali.
Gli altri tutti graduati e Truppa con prevalenza di Milizia, X Mas, e Div.
Littorio. Di alpini, oltre a me, solo un caporale della Compagnia Servizi.
Analizzando la qualità del gruppo il riscontro era che nessuna personalità
di spicco esisteva e si trattava solo di povera gente in divisa. Se, come
si presumeva, i partigiani ci avevano preso per darsi importanza, per esibizione
o per vendetta, il risultato non era certo lusinghiero per loro: avevano
fra le mani uomini qualsiasi senza particolari posizioni o colpe. Ma evidentemente,
come avevano dimostrato sino a quel momento, i nostri carcerieri erano
di livello molto basso, sia socialmente che di intelligenza, dimostravano
solo ottusità, comportamenti volgari e violenti, grande cattiveria
e mancanza assoluta di qualsiasi barlume di civiltà. Nessuno di
loro aveva cercato un sia minimo colloquio con noi e da quando ci avevano
prelevato non ci era stato dato né cibo, né acqua ed a quel
punto erano trascorse oltre 24 ore dall’ultima frugale colazione. Di tanto
in tanto, oltre l’inferriata, si affacciava qualcuno, donne e ragazzi in
particolare che, dopo un’occhiata curiosa, si allontanavano ridendo. Non
ho mai capito quale ilarità potesse creare la vista di uomini pesti
e laceri come eravamo noi. Il tempo era relativamente migliorato, non pioveva
ma il cielo era denso di nubi. Qualche breve e debole raggio di sole compariva
a tratti subito sopraffatto dal grigiore. Più avanti nella mattinata
finalmente qualcuno si fece vivo. Preceduto da particolare animazione e
grida la porta venne aperta e, con un gruppo di partigiani armati, fece
il suo ingresso un tipo che aveva l’aria del capo. Aveva un cinturone da
ufficiale ed una pistola nel fodero, era degnato di rispetto dai suoi uomini
e, prima di parlare, girò a lungo lo sguardo su tutti noi. Chiamato,
il capitano Rossetti si fece avanti ed iniziò uno scambio di domande
e risposte. Il colloquio fu breve e freddo, le parole più usate
dall’interlocutore furono "Fascisti" "Assassini" "Bastardi"
ed altro, concludendo con la dichiarazione che eravamo tutti "da ammazzare".
L’unico lato positivo di quella visita fu che dopo una mezzora circa, la
porta si aprì e ci venne distribuito del pane e dell’acqua. Il pane
era il classico a mattone nero delle truppe tedesche, probabilmente trovato
in qualche deposito. Nelle prime ore del pomeriggio fummo fatti uscire
ed incolonnati, iniziò così la marcia verso il basso che,
dalle rare indicazioni stradali, era in direzione di Lavagna e Chiavari.
Il primo paese che superammo fu Cicagna e fu anche la prima dose di legnate,
insulti e sputi. La cosa si ripeteva ad ogni paese che superavamo ed i
nostri accompagnatori, non facevano nulla per evitare il linciaggio, anzi,
ridevano soddisfatti alla vista. Lungo la strada giungemmo ad un paese
che, mi pare di ricordare, si chiamasse Monleone. Qui ebbi la mia personale
reazione di rabbia e disgusto. Davanti al sagrato della chiesa, circondato
da uomini con fazzoletti rossi, stava, tronfio e goduto con un gran sorriso
sulla bocca, il prete. Aveva anche lui, sopra la lunga tonaca nera, il
suo fazzoletto rosso al collo. Rideva divertito e parlava con i vicini
senza il minimo segno di commiserazione per noi, pesti, sanguinanti e laceri.
I miei ultimi studi li avevo fatti in collegio dai Salesiani e tonache
nere ne avevo viste tante. Non ero mai stato particolarmente docile né
bigotto ma fino a quel momento avevo sempre avuto profondo rispetto per
l’abito talare. La rabbia mi prese e senza pensare, istintivamente, giunto
davanti al sacerdote feci un passo fuori dalla fila e, guardandolo negli
occhi con odio, gridai: "Dio ti stramaledica prete della malora".
Non ebbi modo di vedere la sua reazione. Uno degli armati di scorta mi
appioppò una botta terribile sul capo con la canna del fucile che
teneva fra le mani e, prima che potessi rialzare la testa che avevo avvolta
fra le braccia per ripararmi, avevo superato il punto di parecchio. Ricordo
solo che, nell’attimo della mia frase, il suo volto era immediatamente
diventato pallido, sul suo viso una smorfia di sorpresa muta aveva preso
il posto del riso. Un insistente rivolo di sangue mi scendeva sull’occhio
sinistro e sulla guancia fino ad infilarsi nel collo. Qualcuno dei miei
compagni mi passò un fazzoletto col quale cercai di tamponare la
ferita. La marcia proseguì fra le peggiori angherie che mente umana
potesse partorire. Quando, nel tardo pomeriggio, giungemmo sulla costa,
quello che avevamo già subito era nulla in confronto a quanto dovemmo
ancora subire. Ci fecero passare in lunga fila, fra ali di energumeni picchiatori
pieni di cieco furore, vere e proprie forche caudine, noi potevamo solo
cercare di ripararci dalle botte che arrivavano senza interruzione ed in
ogni parte del corpo. Pugni, calci, colpi con oggetti vari, le donne con
gli zoccoli, sputi, insulti feroci, sassate e legnate nelle gambe. Durò
forse mezzora quel calvario ma sembrò senza fine. Quando finalmente
ci fecero entrare in un campo sportivo finì quell’infernale bolgia.
In quel campo esisteva una vasca con un rubinetto che erogava acqua a volontà
e potemmo tutti dissetarci e lavare le ferite. Circa un’ora più
tardi ci fecero ammucchiare in piedi in un angolo e ricevemmo la sgradita
visita di una specie di brutta copia di un commissario bolscevico con tanto
di giacca di pelle nera e cinturone. pistola alla vita, mitra a tracolla
ed immancabile fazzoletto rosso. Con tanta arrogante prosopopea e boria
ma con poche parole frammiste ad insulti ci comunicò che il giorno
successivo saremmo stati processati dal popolo e condannati. Mi rimase
impresso quello sguardo bieco e cattivo particolarmente perché si
capiva che era una persona colta, dalla parola forbita che però
contrastava con quell’aspetto di boia truce che rappresentava. Senza mezzi
termini ci annunciò già l’esito della condanna che sarebbe
stata emessa il giorno successivo. Condanna a morte per tutti. Molti anni
dopo, negli anni ottanta, seguendo le cronache sulle brigate rosse alla
televisione sono quasi certo di averlo riconosciuto nella persona dell’avvocato
Lazagna, coinvolto marginalmente in quell’inchiesta. Quel giorno finì
con il nostro trasferimento nella soffitta di una scuola senza minimamente
altro cibo.
29/4/45 Il calvario della giustizia rossa
Eravamo stati ammucchiati, la sera precedente, in un sottotetto al
secondo piano di un edificio scolastico dopo aver subito le peggiori angherie
che esseri umani potessero immaginare. Le violenze minori erano le percosse
ricevute da donne che si accanivano a zoccolate sulle nostre teste. Colpi
con il calcio dei fucili, calci negli stinchi e nei testicoli che, oltre
al dolore, lasciavano delle profonde abrasioni sull’interno delle cosce.
Colpi di coltello che pur frenati dagli indumenti, lasciavano; ferite sanguinanti.
Pugni dove capitava e quelli che raggiungevano il ventre lasciavano chi
li riceveva senza fiato. Così, dopo le forche caudine del passaggio
fra due ali di folla impazzita ed urlante, eravamo giunti alla relativa
pace di quel sottotetto. La notte era trascorsa insonne, nessuno era riuscito
a dormire in quelle ore che, era ormai certo, erano le ultime che ci restavano
da vivere. Io me ne ero rimasto quasi sempre rannicchiato con la schiena
contro il muro e con i pensieri che correvano a ricordare i momenti più
significativi della mia breve ma intensa vita passata. Non ricordavo nulla
da rimproverarmi o fatti di cui pentirmi. La mia giovinezza era limpida
e colma di valori spirituali e di profondo amore per quella Patria che,
in quei momenti angosciosi, reputavo ormai finita, preda di traditori,
delinquenti e nemici della civiltà che, come sciacalli, pasteggiavano
sui resti di un corpo non vinto da loro ma dalla potenza di altre nazioni.
Oramai non esisteva più, per noi, la possibilità di vivere
per cui nulla e nessuna speranza albergava nel mio cuore per il futuro.
Davanti a me esisteva solo il vuoto, il nulla. Tutto questo e tante altre
considerazioni mi facevano accettare fatalisticamente e senza recriminazioni
la soluzione tragica della morte che, da li a qualche ora, sarebbe sopravvenuta.
L’unico pensiero che mi portava alla commozione era quello di mia madre
e delle mie sorelle.
Mi mancava solo la possibilità di riabbracciarle e baciarle
per l’ultima volta e poter rivolgere loro le mie ultime parole d’amore.
Ogni qual volta questo pensiero mi assillava lo scacciavo per non essere
preso dalla debolezza dello spirito. Ero forte e deciso a morire con orgoglio
senza mostrare alcun segno di cedimento e con il massimo disprezzo per
i carnefici. La luce del mattino ci annunciava il nascere di un giorno
tragico ed il tempo accompagnava l’imminente tragedia con una pioggerella
fitta ed un ciélo plumbeo. Che ora fosse non era possibile sapere
perché nessuno possedeva più un orologio. La rapina subita,
dopo la resa, non ci aveva lasciato nulla. Gli pseudo liberatori avevano
giustificato tale definizione liberandoci di ogni cosa avesse valore, orologi,
catenelle, soldi ed anche indumenti tanto che molti erano preda a brividi
di freddo trovandosi con la sola canottiera. Il tempo trascorreva veloce
ed ogni qualvolta la porta si apriva il battito del cuore accelerava reputando
giunto il momento fatale. Invece quella porta si aprì molto frequentemente
per introdurre individui armati con vistosi fazzoletti rossi al collo che
ci passavano in rassegna alla ricerca forse di qualche viso noto. Il loro
comportamento era violento e persecutorio proprio come ricordavo di avere
visto al cinema nelle pellicole sulla rivoluzione russa e sulla guerra
civile spagnola.
Francamente mi meravigliai che nessuno riconoscesse me in particolare
dato che, per due mesi, ero stato il comandante proprio di "Marina
III°" a Cavi di Lavagna ed a Lavagna ero abbastanza noto. Più
tardi, nel calvario.della piazza, guardandomi riflesso nello specchio che
faceva da spalla ad un negozio di barbiere, mi resi conto del perché.
Io stesso quasi non mi riconoscevo. Il viso tumefatto, gli occhi gonfi
quasi chiusi, un fazzoletto annodato sulla fronte per fermare il sangue
che colava sugli occhi ed i numerosi lividi mi avevano cambiato i connotati.
Forse questo mi aveva salvato da ulteriori torture da parte di qualche
giustiziere di turno, dato che, oltre tutto. ero privo di giacca e con
i pantaloni strappati e, forse, ero talmente conciato da fare pietà
anche a dei boia. L’attesa del peggio si prolungava nella mattinata. Il
tempo era migliorato e non pioveva più. Dall’esterno ci giungevano
lontane le urla e gli schiamazzi della folla ed un altoparlante che alternava
frasi urlate a musiche da ballo. Dall’unico finestrotto piccolo circolare
che dava un po’ di luce al locale si vedevano solo altri tetti. Venne purtroppo
il momento che precedeva la nostra fine.
Fra tutte le ipotesi fatte la notte precedente aveva prevalso la convinzione,
esternata da un ufficiale della X MAS che si era anche preso l’incarico
di contarci, che ci avrebbero fucilati probabilmente sulla spiaggia a ridosso
della massicciata ferroviaria dove esistevano anche delle fortificazioni
antisbarco in cemento. Eravamo esattamente 51. Ci fecero uscire in fila
indiana con sghignazzate di scherno, insulti e bestemmie. Scendendo le
scale qualche calcio nella schiena faceva rotolare lungo la rampa il malcapitato
che lo riceveva. Giunti sulla strada si ripeteva lo spettacolo del giorno
prima. Due ali di folla urlante con uno stretto passaggio al centro. In
fila indiana si percorreva quel calvario. Io, per caso. fui tenuto fra
gli ultimi e questo forse mi risparmiò più forti percosse
essendosi, la folla, già sfogata e stancata con i primi. Giunsi
così sulla piazza della cittadina antistante il mare dove, macabra
sceneggiata, alcuni tavoli erano posti al centro e sopra i quali, uno alla
volta, veniva fatto salire il malcapitato del momento. Una pseudo giuria
composta da individui con camicie rosse, fazzoletti rossi, armi in mano
od a tracolla, senza minimamente conoscere il nome o menzionare accuse
chiedeva solo alla folla il giudizio che invariabilmente era sempre lo
stesso, urlato dai presenti. A MORTE! A MORTE!. Questo era ciò che
in seguito fu definito "Tribunale del Popolo". Ma il popolo era
veramente quello? Nella piazza erano presenti mille forse più persone,
tutte con qualcosa di rosso addosso. Ricordo che qualche pezzo di tela
rossa rettangolare sfilacciata su un lato denotava di essere stata strappata
da una bandiera tricolore di cui interessava solo la parte rossa. Povera
Italia. La folla presente non poteva rappresentare l’Italia ma solo una
piccola parte, sanguinaria e colorata, che però prevaricava e dimostrava
con la violenza e le minacce, la propria appartenenza alla, peggiore ideologia
politica. In quei giorni violenti, il popolo buono, il popolo onesto e
civile non scendeva in strada per non essere vittima, a sua volta, della
furia rossa. Così fummo, tutti senza eccezioni, condannati a morte.
Ed ogni condannato, dopo la sentenza, veniva consegnato a due partigiani
armati che facevano la fila, a due a due, in attesa del perverso piacere
di poter avere il patriottico incarico di uccidere un odiato nemico. Anche
nella piazza fui fra gli ultimi a salire sul tavolo senza una specifica
ragione. Forse perché molto giovane e la precedenza veniva data
ai più avanti negli anni presumendoli più colpevoli. Mentre
si svolgeva il macabro rito ed attendevo il mio turno a suon di ulteriori
botte, sputi e violenze, udivo, dalla spiaggia, le detonazioni che significavano
la morte di chi mi aveva preceduto.
Ogni condanna richiedeva pochi minuti ma, dato il numero, forse erano
trascorse un paio d’ore e presumo fosse circa mezzogiorno. Per gli ultimi,
forse per stanchezza o noia, il tempo di condanna veniva accelerato e si
arrivava, presumo, ad un minuto a testa. Il successivo veniva fatto salire
sul tavolo prima ancora che il precedente fosse sceso ed il grido A MORTE
non aveva interruzione ed era diventato una tragica cantilena. Quando venni
spinto verso la panca che faceva da scalino ai tavoli mi resi conto di
essere il quartultimo. L’urlo A MORTE gridato per me non mi fece grande
impressione, oramai era fatale ed atteso e le spinte ed il brevissimo tempo
impiegato per la condanna non mi permisero alcuna considerazione o reazione.
Mi presero in consegna per l’esecuzione due partigiani molto diversi fra
loro. Uno giovane, muscoloso, pochi anni oltre i miei diciannove. dotato
di molta prosopopea e volontà di esibirsi come eroe giustizialista;
lo chiamavano Tino; l’altro di mezza età, magro. taciturno e con
uno sguardo indifferente. Forse anche fra i giustizieri i peggiori avevano
preso il sopravvento e la precedenza così. a me, erano rimasti i
mediocri. Fui portato verso un angolo della piazza dove il giovane voleva
esibire la sua vittima ad alcune ragazze ed amici posando a eroe vincitore
ed invitando, chi voleva. a sfogare su di me l’odio verso i fascisti vinti.
La sosta in quel luogo si prolungò un poco perché il più
anziano dei due si allontanò dicendo che andava a bere un bicchiere
e sarebbe tornato subito lasciandomi in balia del giovane. Non lo vidi
più, gli eventi precipitarono di li a poco con la comparsa di un
prepotente energumeno, forse ubriaco, assetato di odio e di sangue e pieno
di boria che, fendendo la folla intorno, mi si parò davanti con
un mitra fra le mani urlando "questo lo ammazzo io" e mi puntò
violentemente la canna del mitra sullo stomaco facendomi mancare il respiro.
Con l’aria del primo attore della commedia mi disse "Hai niente da
dire prima che ti ammazzi? In quel momento mi resi conto che era giunta
la mia ora e proprio perché oramai rassegnato ebbi un attimo di
debolezza chiedendo di poter scrivere a mia madre. La risposta fu "Ai
bastardi fascisti questo non è possibile". Per reazione, mi
prese una profonda rabbia e gli urlai tutto il peggio che conoscevo "vigliacco"
"porco" "traditore" "bastardo" "figlio
di puttana" ed altro aspettandomi la raffica che avrebbe posto fine
alla mia vita. Lo vidi diventare paonazzo e tremare di rabbia e forse era
veramente un vigliacco o forse temeva, data la vicinanza, di colpire altra
gente per cui, sollevato il mitra a due mani, me lo diede in testa con
tutta la sua forza. Una botta tremenda. Caddi per terra e lui continuò
la sua opera prendendoli a calci rabbiosi. Ogni calcio sul mento mi faceva
battere la testa contro il muro della casa tanto che ricordo solo i primi
calci dolorosi, i successivi li sentivo come ovattati nel sonno. Ero svenuto
o forse già più morto che vivo. Non so quanti calci presi
e quanto tempo passò, presumo non tanto.Quando ripresi i sensi mi
resi conto che un militare americano di colore mi sorreggeva e mi caricava
su un gippone mentre un suo compagno, pistolone alla mano, teneva a bada
gli esagitati minacciando di sparare. Non ho avuto modo di ringraziare
i miei salvatori che, senza parlare, né io riuscivo a pronunciare
parole, dopo avermi lasciato in un, ospedale da campo americano, non vidi
più. Venni lavato e medicato e, dopo alcuni giorni, portato al Campo
di Concentramento di S. Rossore nella pineta del Tombolo in Toscana. Forse
il linciaggio a cui ero stato sottoposto aveva richiamato l’attenzione
e la pietà di quella pattuglia americana di passaggio che era intervenuta
salvandomi la vita. Non so e non mi risulta che altri si siano salvati
da quella carneficina. Forse io fui l’unico superstite?
Un giornale edito a Genova, in un articolo postumo sulle stragi perpetrate
dalle Brigate Partigiane in Liguria, così si espresse: «….ma
le stragi di maggiore portata si verificarono quasi certamente nella riviera
di Levante e nelle Vallate che la congiungono con le regioni circostanti.
In quelle valli riposano i resti di centinaia di ufficiali e soldati delle
divisioni "Monterosa" e "San Marco", massacrati e sepolti
in località rimaste sempre sconosciute».
RINASCITA quotidiano del 1 agosto 2004
(Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
LE STRAGI DIMENTICATE.... ASSASSINI
ANCHE DELLA VERITÀ
Le vittime che non hanno mai avuto giustizia – migliaia di uomini e
donne inghiottiti nel nulla – però "politicamente scorretti"
e per questo trascurati dai media – stupri e torture come metodi, per cercare,
di distruggere la gloria di chi cercò la "bella morte"
I caduti della R.S.I. assommarono a diverse decine di migliaia. Centomila
è la cifra che, presumibilmente, si avvicina di più alla
realtà. Molti caddero in combattimento, molti furono uccisi dai
partigiani in un agguato, molti civili furono prelevati nelle loro case
e uccisi con un colpo alla nuca.
Molti, invece, furono trucidati a guerra finita, in una serie di episodi
dove l’odio e lo spirito di vendetta, ma anche il disegno preordinato dei
partigiani comunisti, guidarono la mano di uomini che con ferocia bestiale
infierirono su giovani soldati che, fidando nelle condizioni di resa stabilite,
avevano deposto le armi nelle mani dei cosiddetti Comitati di Liberazione
o di bande partigiane. Dopo qualche tempo dalla fine del conflitto (specialmente
dopo il 18 aprile 1948), molti di quei crimini furono denunciati e la magistratura
pronunciò anche diverse sentenze di condanna. I responsabili della
strage di Oderzo, ad esempio, nelle persone di Adriano Venezian (Biondo),
Giorgio Pizzoli (Gim), Silvio Lorenzon (Bozambo), De Ros (Tigre), Diego
Baratella (Jack) vennero riconosciuti colpevoli di omicidio aggravato e
continuato e condannati, il 16 maggio 1953, a pene varianti dai 24 (Jack)
ai 28 (Tigre) ai 30 anni (tutti gli altri). Ma le amnistie e gli indulti
succedutisi a ritmo febbrile su pressione dei comunisti, fecero sì
che i cinque dopo pochi anni vennero scarcerati e ricevuti a Botteghe Oscure
con tutti gli onori da Togliatti, Longo e Pajetta. Malgrado tutte le amnistie
e tutti gli indulti, tuttavia, alcune condanne rimasero da scontare, ma
il sollecito Partito Comunista di Togliatti provvide a far espatriare clandestinamente
i condannati verso la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Cosicché pochissimi
di quei criminali hanno espiato le loro colpe. Ciò fu facile perché
i partigiani, anche se imputati di gravi crimini, non potevano essere arrestati.
Il Decreto Luogotenenziale 6 settembre 1946 n. 96, infatti, all’articolo
1 recitava: ""...non può essere emesso un mandato di cattura,
e se è stato emesso deve essere revocato, nei confronti di partigiani,
dei patrioti e (degli altri cittadini che li abbiano aiutati) per i fatti
da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente
sino al 31 luglio 1945...""
Qui si vogliono ricordare alcuni di quegli orrendi assassini.
La strage di Oderzo (Treviso)
Negli ultimi giorni di aprile e nei primi di maggio del 1945, 126 giovani
militi dei Btg. "Bologna" e "Romagna" della GNR e della
Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo della R.S.I. che si erano arresi, il
28 aprile 1945, al C.L.N. con la promessa di avere salva la vita, furono
massacrati senza pietà. La maggior parte, ben 113, fu uccisa al
Ponte della Priula. Gli altri furono trucidati sul fiume Monticano.
Al banchetto di addio al celibato di Venezian uno della banda affermò
:- Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo
augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime
di propiziazione, dodici fascisti -.
Fu così che la mattina del 16 maggio scelsero tredici allievi
ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte
della Priula. In totale le vittime fra gli ufficiali della scuola di Oderzo
furono 144.
La corriera della morte
Altri militi e allievi della stessa scuola di Oderzo, che si erano
arresi ai partigiani, furono caricati su una corriera della Pontificia
Opera di Assistenza che si diresse a sud, presumibilmente verso un campo
di concentramento. Ma giunta a San Possidonio (Mo) fu fermata e dei prigionieri
che trasportava si è persa ogni traccia.
Gli uccisi di Pescarenico (Lecco)
La sera del 26 aprile transitò per Lecco una colonna di 160
uomini del Gruppo Corazzato "Leonessa" e del Btg. "Perugia"
che ripiegava su Como. A Pescarenico furono attaccati dai partigiani. Asserragliati
in alcune case i militi si difesero per tutta la notte e per tutto il giorno
27. A sera, avendo quasi esaurite le munizioni, fu trattata la resa. Le
condizioni erano che i militi dovevano avere la libertà e gli ufficiali
la prigionia secondo la Convenzione di Ginevra. Dopo la resa tutti gli
uomini furono picchiati e insultati e minacciati tutti di morte. Il giorno
28 i tredici ufficiali e tre vice brigadieri furono uccisi. Prima di morire
lasciarono ai religiosi che li assistettero, toccanti lettere per i familiari.
La strage di Monte Manfrei (Savona)
In questo luogo isolato dell’Appennino Ligure, fra Genova e Savona,
nei giorni tragici di fine aprile, primi maggio 1945, i partigiani trucidarono
i 200 marò del presidio di Sassello della Divisione "San Marco",
quando la guerra si era ormai conclusa. I cadaveri, sepolti sotto poca
terra nei dintorni, non sono stati ancora rinvenuti tutti, anche per l’omertà
delle popolazioni, minacciate ancora adesso dagli assassini dell’epoca.
Una grande croce ricorda ora i caduti e ogni anno, l’8 luglio, numerose
persone salgono lassù e li ricordano con una toccante cerimonia.
La strage di Rovetta (Bergamo)
Il 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento
di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi
della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise di arrendersi,
sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo
che ospitava i militi e si diresse verso Elusone. Ma, giunti a Rovetta
(BG), trattarono la resa col locale C.L.N. che promise un trattamento conforme
alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi comandati dal giovane
S.Ten. Panzanelli di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle
locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche
segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma
una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose
la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti,
43 di loro (uno riuscì a fuggire e tre giovanissimi vennero risparmiati)
vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. L’ultimo
ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu
il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella
del Duce.
Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della
strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo
a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del
12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo
dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché
da considerarsi "azioni di guerra". Fu, cioè, dalla viltà
dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di
prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.
La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945 un piccolo presidio della Legione "Tagliamento",
26 militi della 4^ Cmp, II Rgt, di stanza nell’edificio delle scuole elementari
a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso da un gruppo di partigiani
fra i quali erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa
i militi reagiscono, ma le perdite sono gravi : 9 morti fra cui il comandante
aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante
partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso insieme ad altri
due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono al
fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunge
in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del brigadiere Amerigo
De Lupis.
Egli si rende conto che i tre feriti che giacciono all’Ospedale di
Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli,
muore la mattina del 26. Allora nel pomeriggio il De Lupis, con una piccola
scorta, porta i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago
d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città.
Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale
della G.N.R. comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a
un gruppo di partigiani e altri partigiani stanno affluendo dalle montagne.
Così il De Lupis e i suoi uomini vengono sorpresi all’uscita dall’Ospedale
e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva
utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten.
Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti
pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di
20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura
Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone
Vito Giamporcaro come testimoni. Ma poiché la cerimonia si prolungava
i partigiani condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono
dietro il cimitero dove furono massacrati con raffiche di mitra. Gli uccisi
furono sei: Amerigo De Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano
Francesco, Giamporcaro Vito, Alletto Antonino. I due legionari: Le Pera
Giovanni e De Vecchi Francesco, ricoverati, come si è detto, in
ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati
e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40
giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e, infine, gettati
nel lago e annegati.
I massacrati di Ponte Crenna (Pavia)
Il 12 agosto 1944 quattro giovani militi venivano catturati dai partigiani
e barbaramente assassinati a Ponte Crenna nell’Oltrepo Pavese. Fra essi
Walter Nannini, medaglia d’Argento alla memoria.
La strage di S. Eufemia e Botticino Sera (Brescia)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945 furono prelevati 11 fascisti a Lumezzane
e altri a Toscolano Maderno. Orribilmente seviziati, 23 vennero uccisi
proprio di fronte alla chiesa di S.Eufemia mentre altri 10 vennero uccisi
e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì
de l’Ora. Qui furono ritrovati in stato di avanzata decomposizione, con
tracce di inaudita violenza e le unghie strappate. Autori dell’eccidio
furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.
L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945 si erano concentrate a Vercelli
tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono
a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli
Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del
26 aprile, dirigendo verso nord per raggiungere la Valtellina. La colonna
raggiunse Castellazzo, a Nord di Novare, la mattina del 27 aprile e, dopo
trattative, la sera decise, dopo molte incertezze, di arrendersi ai partigiani
di Novara dietro promessa di essere trattati da prigionieri di guerra.
Il 28 aprile i prigionieri vengono condotti a Novara e rinchiusi in massima
parte nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti
e il 30 cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti dei quali non
si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi insieme
a feroci pestaggi. Il 2 maggio Morsero viene portato a Vercelli e fucilato.
Intanto sono giunti gli americani che tentano di ristabilire un minimo
di legalità. Ma il Corriere di Novara dell’8 maggio parla di molti
cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché
il 12 maggio giungono da Vercelli i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi
di "Gemisto" cioè Francesco Moranino che prelevano circa
140 fascisti elencati in una loro lista.
Questi uomini saranno le vittime della più incredibile ferocia.
Portati all’Ospedale Psichiatrico di Vercelli saranno, in buona parte massacrati
all’interno di questo. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio erano
lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri saranno schiacciati in un
cortile da un autocarro, altri fucilati nell’orto accanto alla lavanderia,
altri, pare tredici, fucilati a Larizzate e altri ancora, infine, portati
con due autocarri e una corriera (quindi in numero rilevante) al ponte
di Greccio sul canale Cavour e qui, a quattro a quattro, uccisi e gettati
nel canale. Nei giorni successivi i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione
alimentati dal canale Cavour furono più di sessanta.
Solo il giorno 13 maggio, domenica, gli americani prenderanno il controllo
dei prigionieri ed eviteranno altri massacri. Era già pronta la
lista dei prigionieri da prelevare quello stesso giorno alle ore 18.
Il massacro di Schio (Vicenza)
La notte del 7 luglio 1945 una pattuglia partigiana irruppe nel carcere
di Schio dove erano detenute 91 persone presunti fascisti. Di queste, contro
cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54
di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il tribunale
militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del
crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti
emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro
confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il governatore
militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio " costituiscono
una macchia per l’Italia ed hanno avuto una larga pubblicità nei
giornali statunitensi, britannici e sudafricani dove vengono considerati
senza attenuanti ".
Il massacro di Avigliana (Torino)
Qui furono uccisi, a guerra finita, dopo che si erano arresi ed erano
stati disarmati, 33 militari della R.S.I.
I morti di Agrate Conturbia (NO)
"Caduti per la Patria" sta scritto su una croce che fa la
guardia a 33 salme di fascisti senza nome, trucidati nel sottostante bosco
detto "la Bindellina"
I feroci massacri del Biellese
A Bocchetta Sessera (Vercelli) una stele ricorda le decine di cadaveri
di fascisti, non solo uomini ma anche donne, stuprate e seviziate prima
di essere uccise, che si presume ancora si trovino nel bosco sottostante.
Fu questa, una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli
inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino detto Gemisto che, ricordiamolo,
nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze per
strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove
rientrò in Italia dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore
Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Qui, dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Btg N.P. della X^ fu trasferito
sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò. Essi,
che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi,
pensavano di non avere nulla da temere, dopo il 25 aprile, a guerra finita,
si consegnarono ai partigiani della Brigata "Mazzini" (Comandante
Mostacetti). Ma nella notte fra il 4 e il 5 maggio essi furono divisi in
tre gruppi per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo
fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria
e, qui, trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi,
fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto
in località Medean di Comboi. Qui ai marò vennero legate
le mani dietro la schiena con filo di ferro, indi, dopo essere stati depredati,
vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto
in località Bosco di Segusino.
L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. ( Reparti Arditi Ufficiali) appartenente
al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si
arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo
stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore
delle armi. Ma il 29 vengono divisi in due gruppi: nel primo vengono inclusi
quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali,
nel secondo gli altri. Il primo gruppo viene condotto a Graglia fra inauditi
maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni. Fu negata l’acqua anche
alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945 furono divisi in
tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia
da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla
Cascina Quara presso il Santuario. E furono tutti trucidati. Oggi tutte
le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia dove una
lapide bronzea recante il gladio della R.S.I. che ne ricorda il sacrificio.
L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945 ad Argelato (Bologna), frazione Casadio,
podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio
in Piano, partigiani emiliani trucidavano i sette fratelli Govoni : Dino,
Emo, Augusto, Marino, Giuseppe, Primo e Ida, di appena venti anni.
Gli uccisi del XIV Btg Costiero da Fortezza
Il 5 Maggio 1945, a guerra ormai conclusa, 20 militi del battaglione,
che aveva valorosamente combattuto a difesa dei confini orientali, si consegnarono
ai partigiani, fidando nelle leggi internazionali che tutelano i prigionieri
di guerra. Ma i partigiani, totalmente irrispettosi di ogni legge, li condussero,
dopo molte marce, a Sella Doll di Montesanto e qui, fattili inginocchiare
sul bordo di una trincea della prima guerra mondiale, barbaramente li uccisero
con un colpo alla nuca.
La strage di Codevigo (Padova)
Qui nei primi giorni del Maggio 1945 (fra il 3 e il 13) furono seviziate
e uccise oltre 365 persone fra cui 17 fascisti (uomini e donne) dello stesso
Codevigo (12 maggio). I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della
provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile
e chiusi in carcere. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono
dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li condussero, invece, a Codevigo
e qui, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e
li uccisero a due a due, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate
via dalla corrente. Altre, gettate nei cimiteri dei dintorni.
I trucidati a Ponte di Greggio (VC)
I fatti avvennero nei primi giorni del Maggio 1945.
I massacri di Sondrio
A fine guerra (Aprile-Maggio 1945) l’attuale Palazzo di Giustizia di
Sondrio era una prigione piena di fascisti. Ogni giorno i partigiani ne
prelevavano una trentina e li fucilavano.
I massacri dei bersaglieri del "Mussolini"
Come è noto il Btg di bersaglieri volontari "Mussolini"
fronteggiò gli slavi del X° Corpus sul fronte orientale fin
dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 Aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e
la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del "Mussolini"
decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite
che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli
ufficiali per accertare eventuali responsabilità. Ma i "titini"
si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di
lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero
in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire,
ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati,
condotti sul greto dell’Isonzo e, qui, trucidati. Dopo altri giorni altri
dodici furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora il 18 maggio
dall’Ospedale Militare di Gorizia furono prelevati 50 degenti e uccisi.
Dieci erano bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia
allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati, e altri
furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso
campo di prigionia di Borovnica ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane
seminano morte fra gli odiatissimi bersaglieri. Alla chiusura di quel campo,
nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi ove le condizioni
non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto
150 bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, poterono tornare in Italia.
Dei quasi quattrocento caduti del battaglione, ben 220 furono quelli uccisi
dopo il 30 aprile 1945.
La strage delle ausiliarie
Negli ultimi giorni dell’ Aprile e nei primi di Maggio 1945 l’odio
bestiale dei partigiani si scatenò con particolare accanimento contro
le donne che avevano prestato servizio in qualità di ausiliarie
nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, sovente stupri
ripetuti, e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole
ed esponendole così al ludibrio di folle imbestialite.
L’elenco delle ausiliarie cadute che compare in un’opera di Pisanò
è di 200 nominativi, ma si avverte che tale elenco non è
completo proprio perché non è mai stato possibile fare luce
completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani in quella
primavera di sangue a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli
fino alla fine.
L’olocausto della "Monterosa"
Tra il 24 e il 25 Aprile tutte le truppe schierate sul fronte alpino
occidentale ricevettero l’ordine di ripiegare sul fondovalle. Così
anche gli uomini della Divisione Alpina "Monterosa" iniziarono
il ripiegamento. E, a cominciare dal 26 aprile, molti reparti, ad evitare
spargimenti di sangue ormai inutili, si arresero al C.L.N. della zona avendo
formali promesse di trattamento conforme alle leggi internazionali. Purtroppo
tali leggi non furono rispettate e anche qui, come altrove, decine e decine
di uomini ormai disarmati, furono trucidati con bestiale ferocia. Non è
possibile ricostruire tutti i fatti, molti dei quali, probabilmente, non
sono mai stati resi noti. E’ molto noto, invece, il caso degli uomini del
Btg "Bassano" che si erano arresi il 26 aprile al C.L.N. di Saluzzo.
Come al solito essi avevano avuto ampie garanzie di salvaguardia della
loro incolumità. Ma, ancora come il solito, tali promesse non erano
state rispettate. E l’Avv. Andrea Mitolo di Bolzano, già ufficiale
del "Bassano", con una circostanziata denuncia alla Procura della
Repubblica di Saluzzo, descrive la fine di ventidue uomini, ufficiali e
soldati, trucidati dai partigiani di "Gianaldo" (Italo Berardengo)
dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati.
Né, parlando della Monterosa, possiamo non ricordare l’infame
attentato alla tradotta che trasportava sul fronte occidentale gli uomini
della "Monterosa" che erano stati ritirati dal fronte della Garfagnana.
Tra Villafranca e Villanova d’Asti fu minata la linea ferroviaria e l’esplosione,
provocata al passaggio della tradotta, travolse due vagoni e uccise 27
alpini ferendone altri 21 anche in modo molto grave. Malgrado l’odiosità
del vile attentato non fu attuata alcuna rappresaglia.
I trucidati della Divisione "Littorio"
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della "Littorio"
che, come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono
il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti
che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono
a questi e furono avviati ai campi di concentramento.
Quelli, invece, come il III Btg del 3° Rgt granatieri, si consegnarono
ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi
partigiani del capitano Aldo Quaranta per un indisturbato deflusso di tutti
i reparti e il III Btg, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese
al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero
stati messi gradualmente in libertà forniti di lasciapassare. Fra
gli uomini del Btg e i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri
incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della "Littorio"
fidando nella parola dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del
CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi,
comandante del III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap.
Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta
ed altri furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo
e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.
I morti della Divisione "San Marco"
Negli ultimi giorni di Aprile, a guerra conclusa, molti uomini della
Divisione "San Marco" furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò,
nella sua "Storia delle Forze Armate della R.S.I." ne elenca
alcune centinaia fra cui circa 300 ignoti ancora in divisa ma privi di
ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei,
Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi.
Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., qui il 27 aprile
accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto
per tutti. Ma una volta deposte le armi i partigiani condussero gli ufficiali
a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS).
Fra di essi il Comandante del Deposito Ten. Col. Zingarelli, la cui salma
fu ritrovata con le altre orrendamente mutilate.
I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I reparti più atti al combattimento di questa divisione ( Btg
"Debica" e Gruppo di combattimento "Binz") si arresero
agli americani nei giorni 29 e 30 aprile. Il resto della divisione, invece,
( Btg Pionieri e Btg dislocati a Mariano Comense e a Cantù) dopo
una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, fu
catturato dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Ten.
Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto
presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.
I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Il I Btg era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che
erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente per contrastare
l’avanzata del negri della 92^ Div. "Buffalo". I reparti che
si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero
fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e,
immediatamente, quasi tutti uccisi. Il II Btg si trovava, invece, in Liguria
in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento,
risalì insieme alla 34^ Div. Tedesca fino a Quagliuzzo in Piemonte
e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale previo rilascio di un lasciapassare
per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Cap. Francoletti
e il Ten. Casolini furono condotti sul greto della Dora e qui massacrati.
I corpi non furono mai ritrovati. Questo Btg ebbe anche due giovani mascotte,
di quattordici e 12 anni, assassinate dai partigiani.
I caduti dei Guastatori del Genio II Btg
Anche questo reparto (che aveva poi assunto il nome di II Btg Pionieri
"Nettuno") ebbe i suoi caduti dopo la cessazione delle ostilità.
Nei giorni successivi al 25 aprile 1945 il Btg fu sciolto a Somma Lombardo
(Varese). La popolazione del luogo si adoperò in ogni modo per salvare
gli uomini del Btg, favorendo il rientro nelle loro famiglie. Malgrado
il generoso intervento, i partigiani catturarono il Capitano Dino Borsani
e, dopo due settimane di torture, lo trucidarono insieme a tre militari
sulle rive del Ticino. Era il 10 maggio 1945.
Gli uccisi del Btg Volontari Mutilati "Onore e Sacrificio"
Anche questo Battaglione che la Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi
di Guerra aveva voluto costituire (come già accadde durante la campagna
etiopica del 1936) ebbe trucidati molti dei suoi appartenenti. Il Btg era
stato costituito a Milano e qui era sempre rimasto, a svolgere compiti
territoriali. Dopo la resa anche su questi mutilati infierì la ferocia
partigiana e, allorché ebbero deposto le armi, molti furono gli
assassinati
L’eccidio di Ozegna
Pur non essendo accaduto dopo il termine della guerra, si ritiene opportuno
narrare qui anche questo fatto, per la vigliaccheria con cui venne consumato
l’agguato. L’8 di luglio del 1944 un reparto motorizzato del Btg "Barbarigo"
della X^ MAS, che dalla metà di giugno si trovava in Piemonte, al
ritorno da una missione fece sosta nella piazza di Ozegna. Lo comandava
il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli, comandante del Battaglione. Sulla
stessa piazza si trovavano alcuni partigiani coi quali Bardelli avviò
una pacata discussione invitandoli a non combattere contro altri italiani
per conto dello straniero invasore. La conversazione fu pacata e i partigiani
ammisero che occorreva fare fronte comune contro gli stranieri. Ma l’atteggiamento
remissivo e non ostile nascondeva l’agguato. Infatti, mentre essi parlavano
in quel modo con Bardelli, un centinaio di partigiani si ammassarono nelle
vie che sboccavano nella piazza e, non appena i parlamentari partigiani
si allontanarono, un inferno di fuoco si scatenò sugli uomini del
"Barbarigo". Bardelli tentò di organizzare la resistenza,
gridando: - Barbarigo non si arrende - , ma cadde quasi subito sotto il
fuoco delle armi partigiane della banda di Piero Urati (detto Piero Pieri)
insieme a dodici marò. I sopravvissuti, molti dei quali erano feriti,
dovettero arrendersi.
Il massacro del Distaccamento "Torino" della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono
la città agli ordini del comandante regionale militare Gen. Adami-Rossi.
Ma il distaccamento "Torino" della Decima Flottiglia MAS non
le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una
resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La resistenza
durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i carri
e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì
a mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti
si abbatté la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati
nel cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni
partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di prigionieri.
Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio dei camerati,
vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.
Il sacrificio della Compagnia "Adriatica" della X^ MAS
All’atto dell’abbandono di Ravenna il Ten. Di Vasc. Giannelli costituì,
coi marinai presenti, una compagnia di fucilieri. Era il 1° dicembre
1944. Spostatasi a Chioggia, la compagnia si aggregò alla X^ e,
nel gennaio 1945, partì per Fiume e, da qui, si portò sull’isola
di Cherso. Qui, nel maggio 1945, la compagnia si sacrificò pressoché
per intero per la difesa dell’isola.
Il sacrificio della Compagnia "D’Annunzio" della X^ MAS
Costituitasi a Fiume nel maggio 1944, fu l’estremo avamposto della
Decima sui confini orientali. Posta alla difesa di Fiume, costituì
anche tre distaccamenti: Laurana, Lussimpiccolo e Lussingrande. Il 25 aprile
1945 Laurana venne attaccata dai "titini" e i 130 marinai si
difesero strenuamente fino all’arrivo dei soccorsi. Ma ben 90 caddero nello
scontro. Gli altri due distaccamenti si difesero eroicamente fino alla
totale distruzione. Fiume si difese con uguale valore fino al 1° maggio,
nella vana attesa di uno sbarco anglo-americano. E il 2 maggio i superstiti
furono catturati dagli iugoslavi. Ben pochi rientrarono dalla prigionia
nel 1947.
Il sacrificio della Compagnia "Sauro" della X^ MAS
Costituita a Pola nel settembre 1943 con gli uomini del deposito del
Reggimento San Marco rimasti, dopo la visita di Borghese passò alle
dipendenze della X^. A fine aprile e fino al 3 maggio combatté strenuamente
fino all’ultimo per la difesa della città. Pochi sopravvissero e
furono catturati dagli slavi.
I trucidati della base operativa "Est" della X^
La Base "Est" aveva sede a Brioni Maggiore ma, a fine aprile,
col precipitare degli eventi, si concentrò presso il Comando di
Marina-Pola. Dopo aver partecipato alla difesa della città, quando
essa cadde il personale fu catturato dagli slavi. Solo quattro marinai
furono risparmiati. Ufficiali, sottufficiali e 50 fra gradutai e marinai
furono trucidati a Portorose, a Brioni e a Pola.
Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X^
Questa scuola, costituita a Portofino nel gennaio 1944, nell’estate
fu trasferita in Istria, sul confine orientale, a Portorose. Una parte
del personale, catturata negli ultimi giorni di aprile, fu subito passata
per le armi. Altri, caduti prigionieri a Pola ove si erano concentrati,
finirono nei terribili campi di concentramento iugoslavi. Pochi i sopravvissuti.
I morti del Btg. "Sagittario" della X^
Il 30 aprile 1945 il Btg., insieme ad altri reparti del II° Gruppo
di Combattimento, raggiunse Marostica e qui, secondo gli ordini, si dette
in prigionia agli americani. Ma, dopo la resa, il Comandante Ten.Vasc.F.M.
Ugo Franchi e numerosi marinai, furono prelevati e assassinati dai partigiani.
L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti
Il 29 aprile 1945 a Gallarate il Primo Gruppo Caccia dell’Aeronautica
Repubblicana si arrendeva al CLN del luogo previo accordo che garantiva
a tutti l’incolumità. Gli ufficiali vennero condotti a Milano nella
Caserma del "Savoia Cavalleria" in Via Vincenzo Monti. Qui, contrariamente
agli accordi, gli ufficiali, cui era stato concesso di tenere le proprie
armi, vennero disarmati. E mentre attraversavano il cortile della caserma,
il Maggiore Adriano Visconti, comandante del Gruppo e il S.Ten. Valerio
Stefanini, Aiutante Maggiore, vennero vilmente assassinati con raffiche
di mitragliatore sparati alle spalle. Furono sepolti nel cortile stesso
della caserma.
I massacrati del Btg. "Folgore"
Il 29 aprile 1945 il Btg. "Folgore" del Rgt "Folgore"
si stava dirigendo verso Venaria Reale. Contemporaneamente una pattuglia
su un autocarro si diresse a Torino per ritirare alcuni autocarri presso
il deposito reggimentale e per recuperare i feriti del Btg presso l’O.M.
Ma a Porta Susa un blocco partigiano impedì la realizzazione del
progetto. Allora il sottufficiale capo-pattuglia parlamentò coi
partigiani ed ebbe l’assicurazione che i feriti sarebbero stati rispettati.
Purtroppo, invece, tutti i feriti furono massacrati. Il 1° maggio
il Btg., giunto a Strambino il giorno prima, si sciolse, e il Capitano
Fredda sciolse gli uomini da ogni obbligo. Ma quasi nessuno abbandonò
il reparto che il 5 maggio, ad Ivrea, si consegnò in prigionia di
guerra agli americani ricevendo l’onore delle armi. L’ausiliaria Portesan
e il sergente maggiore Ciardella furono i soli a lasciare il Btg il 2 maggio,
ma, appena fuori dalla zona presidiata, furono trucidati dai partigiani.
Le stragi di Genova
Fra il 26 e il 27 aprile 1945 cessava la resistenza dei presidi della
GNR rimasti in città. Con l’assunzione del potere da parte del CLN
iniziarono i massacri che coinvolsero anche gran parte dei familiari dei
militi. Massacri che continuarono anche dopo l’arrivo a Genova della 92^
Div. "Buffalo" americana.
Le stragi di Imperia
I partigiani entrarono in Imperia il 25 aprile 1945. Fu subito costituita
una "commissione di giustizia" che arrestò 500 fascisti
o presunti tali. Si disse che era per salvaguardarne la vita. Ma il 4 maggio
una quarantina di loro fu seviziata e uccisa. E anche nella provincia avvennero
massacri spaventosi.
Le stragi di Milano
Il 608° Comando Provinciale GNR, fedele alle consegne, non si sbandò
il 25 aprile 1945 e, chiusisi i vari distaccamenti nelle caserme, resisté
fino all’ultima cartuccia. Dopo di che, malgrado le promesse di rispetto
della vita, ci furono i massacri, compiuti prevalentemente dai partigiani
dell’Oltrepo pavese. Interi plotoni vennero passati per le armi. E le uccisioni
continuarono anche quando i pochi superstiti ritornarono alle loro case
dai campi di concentramento.
Le stragi di Varese
Anche qui le forze del 609° Com. Prov. GNR rimaste sul posto, dopo
essere state sopraffatte il 26 aprile 1945, subirono le atroci vendette
dei partigiani che, dopo aver subito fucilato il Cap. Osvaldo Pieroni con
alcuni altri, continuarono fino a tutto maggio le esecuzioni sommarie,
abbandonando insepolti i cadaveri, spesso rimasti senza nome.
Le stragi di Como
Nella notte del 27 aprile 1945 il Colonnello Vanini aveva ordinato
la resa e lo scioglimento del 610° Com. Prov. GNR. Ciò fu fatto,
come dagli altri reparti della R.S.I., per evitare il bombardamento della
città che sarebbe stato richiesto dai partigiani. Subito dopo cominciarono,
anche qui, le sevizie e le uccisioni di numerosissimi militari, che continuarono
per quasi tutto maggio.
Le stragi di Sondrio
Il 611° Com. Prov. GNR si arrese ai partigiani il 28 aprile 1945
dietro promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali.
Ma ai primi di maggio ebbero inizio le uccisioni di massa. Fra gli uccisi
anche due Capitani medici. Il S.Ten. Paganella fu gettato da un campanile.
Molti uccisi ebbe anche il I Btg Milizia Francese, dipendente dallo stesso
Comando.
Le stragi di Brescia
Gli uomini del 613° Com. Prov. GNR si arresero fra il 28 e il 30
aprile 1945. Subito ci furono sevizie e uccisioni compiute dai partigiani.
Il maggiore Spadini subì un vergognoso processo e fu condannato
a morte e fucilato il 13.2.1946.
Le stragi di Pavia
Le forze del 616° Com. Prov. GNR furono particolarmente pressate
dalle ingenti bande partigiane della zona. Il 25 aprile 1945 il presidio
di Strabella visse un episodio eroico. Per consentire al grosso delle truppe
di ritirarsi verso nord, dodici giovanissimi volontari si assunsero il
compito di impegnare le forze partigiane. I dodici giovani, poi ridotti
a sei, si difesero disperatamente per tutto il giorno e tutta la notte.
Poi accettarono la resa con l’onore delle armi. Ma poco dopo, furiosi per
essere stati tenuti in scacco da sei ragazzi, i partigiani li prelevarono
(ad eccezione di uno che riuscì a fuggire) e li fucilarono insieme
ad altre 14 persone. La stessa sorte fu riservata a molti militi degli
altri presidi.
Le stragi di Vicenza
Gli uomini del 619° Com.Prov. GNR, all’atto dello sfondamento del
fronte nell’aprile 1945 si ritirarono verso le montagne. Ma qui dovettero
arrendersi ai partigiani. Vari distaccamenti, però, si difesero
strenuamente finché vennero sopraffatti e massacrati con inaudita
ferocia.
Le stragi di Treviso
Anche in questa provincia gli uomini del 620° Com. Prov. GNR, dopo
la resa avvenuta fra il 27 e il 30 aprile 1945, subirono la feroce vendetta
partigiana. A Revine Lago, a Oderzo, a Susegana furono soppressi centinaia
di uomini. Quelli del presidio di Fregona, arresisi il 27 aprile, furono
portati a Piano del Cansiglio e infoibati.
Le stragi di Padova
Il 623° Com. Prov. GNR cessò di esistere il 28 aprile 1945.
In tutta la provincia infierirono gli uomini della brigata garibaldina
di "Bulow" (Boldrini) che commisero innumerevoli eccidi.
Le stragi di Bologna
Il 629° Com. Prov. GNR partecipò, il 21 aprile 1945, alla
difesa di Bologna, poi si ritirò verso il Po e qui si sciolse. I
suoi uomini furono braccati e moltissimi furono gli assassinati e lasciati
senza sepoltura.
Le stragi di Parma
Il 631° Com. Prov: GNR partecipò alla difesa della città
il 23 aprile 1945, poi una colonna si ritirò fino a Casalpusterlengo
ove si sciolse. Ma i presidi di Colorno e di Salsomaggiore furono massacrati
al completo.
Le stragi di Modena
Il 633° Com.Prov.GNR nell’aprile 1945 si ritirò ordinatamente
fino quasi a Como dove si sciolse. Ma nella provincia di Modena le uccisioni
indiscriminate di fascisti continuarono fino al 1946.
Le stragi di Forlì
Gli uomini del 636° Com. Prov. GNR ripiegati al nord, confluirono
nel Btg. "Romagna" che fu inviato nel Veneto. Qui, negli ultimi
giorni di aprile 1945 avvenne la resa e, dopo la resa, il pressoché
totale annientamento ad opera dei partigiani.
Le stragi del 3° Rgt M.D.T. "D’Annunzio"
Il 3° Reggimento "Gabriele D’Annunzio", che era di stanza
a Fiume, negli ultimi giorni di aprile 1945 tentò il ripiegamento
verso Trieste e Gorizia. I suoi uomini, costretti ad arrendersi agli slavi
il 3 maggio subirono orrende sevizie, numerose uccisioni, e anche infoibamenti.
Gli uccisi del Btg "Montebello"
Una parte del Comando e la 4^ Cmp di questo Btg il 23 aprile 1945 erano
rimasti a Cossato. Qui dovettero arrendersi ai partigiani che garantirono
l’onore delle armi e la vita salva agli uomini. Ma, come al solito, appena
deposte le armi, iniziarono le sevizie e le uccisioni. Il giorno 30 aprile
a Sordevolo un primo gruppo di uomini, compreso il Cappellano militare
Cap. Don Leandro Sangiorgi, furono uccisi. Un altro gruppo fu ucciso il
1° maggio a Coggiola. Altri, condotti nel famigerato campo sportivo
di Novara, finirono poi massacrati nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli.
Il sacrificio del Btg "9 settembre"
Arresosi il 27 aprile 1945, ebbe garanzie di rispetto della vita degli
uomini. Invece dal 1° maggio bande partigiane prelevavano gruppi di
prigionieri e, condottili in montagna ove li tenevano anche tre giorni
senza cibo, li seviziavano e li uccidevano. Si erano arresi in 190. Ne
sopravvissero una diecina.
Il tributo di sangue delle Brigate Nere
La XI Brigata Nera "Cesare Rodini" di Como si arrese il 28
aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma al presidio di
Cremia, della Cmp "Menaggio", toccò una sorte tragica.
Il 25 aprile un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini classe 1930, portò
anche a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma il comandante
del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano
salva la vita. Ma appena consegnate le armi tutti gli squadristi furono
portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati tutti, compreso
il giovane Tomaini.
E questo non fu l’unico episodio di piccoli presidi delle B.N. massacrati
in quel modo. Le B.N., infatti, pagarono un alto tributo di sangue in quelle
tragiche giornate.
La strage della cartiera Burgo di Mignagola
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono
veri e propri campi di sterminio, dove in brevissimo tempo procedevano,
dopo nefande sevizie, a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano
"epurazioni". Alla cartiera "Burgo" di Mignagola, frazione
di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave, furono sterminate 400
o forse anche 1000 persone. Tra i trucidati il giovane ufficiale Gino Lorenzi,
crocifisso; era un sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U.
Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una
rozza croce costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente
fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono.
Ma non fu l’unica crocifissione; si ha notizia anche della barbara
e feroce tortura inflitta ancora ad un giovane sottotenente della GNR appena
uscito dalla scuola A.U. : Walter Tavani crocifisso a un portone a Cavazze
(MO). E ancora altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle scelti
tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano dopo sevizie atroci:
aver avuto mozzate le mani, strappati gli occhi, inchiodata la lingua,
strappate le unghie,amputati i genitali.
Eccidio del carcere giudiziario di Ferrara
L’otto giugno 1945 una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino
del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire
con uno stratagemma, la porta del carcere "Piangipane" , di Ferrara,
tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti
per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti
politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi
di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche
di mitra sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare
nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima
di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia.
In successive e tardive indagini furono identificati i tre sicari,
ma , giudicati dalla Corte di Appello di Ancona, questa ritenne estinti
i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato "commesso nella
lotta contro il fascismo".
Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
L’otto maggio 1945 una piccola folla di facinorosi sobillati da comunisti,
prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata
di ogni bene asportabile e quindi devastata, soltanto perché colpevoli
di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con feroci
sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita
una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei
due fascisti gettati tra le fiamme ancora vivi.
Nefandezze nel modenese
A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto
in una carrozzella, il 29 aprile, venne seviziato vigliaccamente e poi,
ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate
in un recinto.
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del
Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte
ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, furono
sepolte vive.
Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
A Trausella (TO), la levatrice di quel comune fu prelevata, "con
audace azione di guerra", mentre si recava ad assistere una partoriente,
trascinata presso il comando di una "valorosa e intrepida" formazione
partigiana, fu violentata da un numero imprecisato di eroici "combattenti
per la libertà", che poi la trucidarono, assassinandola tra
tormenti atroci avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di
benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con
altri tamponi infiammati fino al purtroppo stentato sopraggiungere della
liberazione con la morte.
L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo)
Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 le truppe italo-tedesche
abbandonarono la zona di Rosolina. In località Volto operava una
batteria antiaerea della X Flottiglia Mas. Il 26 aprile i marò della
Decima fanno saltare le munizioni e i cannoni e cercano di mettersi in
salvo vestendosi in borghese. Ma nella notte fra il 26 e il 27 vengono
raggiunti dai partigiani e uccisi senza pietà con raffiche di mitra.
L’allora parroco Don Mario Busetto ha lasciato una testimonianza dalla
quale si ricava che in data 30 aprile furono scoperti sotto la sabbia 9
cadaveri. Il 15 giugno 1946, poi, vennero scoperti e sepolti altri 5 cadaveri.
Insieme ai 14 marò furono uccise anche due giovani sorelle che prestavano
servizio alla batteria in qualità di ausiliarie: Adelasia Zampollo
di anni 17, nata a Chioggia e residente a Genova e la sorella Amorina di
24 anni, che aveva un figlio piccolo.
Le stragi di Omegna
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1945 una squadra di partigiani
penetrò con l’inganno nella casa di Raffaele Triboli e lo prelevò
insieme alla moglie Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni Gianna.
La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restavano soli
in casa nel terrore i figli Francesca di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele
di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine,
gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute.
Né, questo, fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona
del lago d’Orta.
La strage dei ragazzini di Mario Onesti
Il 25 aprile 1945 un reparto di giovanissimi militi della contraerea
della Malpensa, guidato dal sergente Mario Onesti si dirigeva verso Oleggio.
Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difendono come
possono. Alla fine il cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, invita
i militi ad arrendersi. Avranno salva la vita e un salvacondotto per tornarsene
a casa. Il sergente interpella i suoi giovanissimi militi, poco più
che adolescenti, e decide di accettare. Qualcuno non si fida e riesce a
fuggire, ma undici, col loro sergente, si consegnano e, alle 18,30, si
redige un verbale dell’accordo. Ma i partigiani non hanno nessuna intenzione
di rispettare il patto e il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vengono trattenuiti
prigionieri nelle segrete del castello di di Samarate, dove vengono sottoposti
a indicibili torture. E il giorno dopo ancora, 27 aprile, alle 8 di mattina
vengono caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il prete
che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo è impotente e può
solo impartire una frettolosa benedizione. Poi la fucilazione. Tutti offrono
il petto ai fucilatori. Si ode qualche grido di "Viva l’Italia".
Non sazi gli aguzzini infieriscono sui corpi degli uccisi, anche ficcando
ombrelli negli occhi dei morti.
La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Il 9 gennaio 1945 alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica
nella campagna modenese dove si era rifugiato il veterinario Carlo Pallotti,
fascista, insieme alla famiglia e massacrarono l’intera famiglia : il Pallotti,
la moglie Maria Bertoncelli e i giovanissimi figli Luciano e Maria Luisa.
Responsabili furono ritenuti i partigiani modenesi Michele Reggianini e
Giuseppe Costanzini che, però, non subirono alcuna condanna per
questo crimine in quanto il massacro fu ritenuto, dalla magistratura della
nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.
Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro
(Pare opportuno inserire anche queste morti fra le stragi di quel periodo)
Il Giornale del 9/3/1995, con un articolo a firma P.Pisanò,
informa:
"Sono 8, le condanne a morte di fascisti, chieste e ottenute dal
P.M. O.L.Scalfaro, alla Corte assise di Novara, dopo il 25/4/1945.La biografia
ufficiale, parla di un solo imputato, per il quale la condanna a morte
era inevitabile; ma tale imputato..venne poi graziato...La realtà
è un po’ diversa. 1943: Il futuro presidente della Repubblica entra
in magistratura.1°maggio 1945: O.L.Scalfaro assume volontariamente
la carica di vicepresidente del tribunale di Novara. 13 giugno 1945: Sostituiti
i tribunali del popolo con le CAS (Corte Assise straordinarie), O.L.Scalfaro
sostiene la pubblica accusa contro Enrico Vezzalini, soldato valoroso pluridecorato.
15 e 28/6/1945: L’Ufficio del PM ottiene la condanna a morte di Enrico
Vezzalini, Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni
Zeno e Raffaele Infante.Condanne eseguite all’alba del 23 sett.1945 (ndr:
al poligono di tiro di Novara). 16 luglio 1945: Il PM chiede ed ottiene
la condanna a morte di Giovanni Pompa, 42 anni, della GNR. Sentenza eseguita
il 21/10/1945. 12 dic.1945: il PM chiede ed ottiene la condanna a morte
di Salvatore Zurlo. Da "Il Corriere di Novara" del 19 dic.1945:
"Il PM Scalfaro parla con vigoria ed efficacia che lo fanno ascoltare
senza impazienza dal pubblico....Il Pm, dopo la chiarissima requisitoria
conclude domandando la pena di morte per lo Zurlo..."Lo Zurlo, nel
1946, in processo d’appello,ebbe la sentenza annullata. Otto condanne a
morte ottenute, sette eseguite. O.L.Scalfaro, brillante inquisitore da
tribunale del popolo, si è ormai messo in luce per tentare le vie
della politica, candidandosi all’ Assemblea Costituente e, pur senza abbandonare
la magistratura e relative prebende, avviarsi verso la gloria di Roma".
Questo articolo è rimasto, all’epoca, senza reazioni di sorta
dell’interessato: tutto vero, dunque. Ma giornalisti de "L’Ultima
Crociata", andati a Novara per rivedere le carte di quei processi,
non trovarono un bel nulla.
RINASCITA quotidiano del 20 novembre 2003